Quando per la prima volta incontrai Cesare Pavese ero ancora piccolina. Nella biblioteca della mia scuola Media, tra gli scaffali impolverati, presi in prestito un libricino. "Poesie" c'era scritto sulla copertina. Non so perché rimasi attratta da quel volume vecchio e mal messo. A distanza di anni inizio a pensare che non sia stato un caso: il destino ha voluto tendere un filo rosso tra me e lui. Lo lessi, durante una lezione di civiltà inglese, e rimasi incantata. Vari brani attirarono la mia attenzione, ma una poesia in particolare lasciò in me un segno profondo, "Lo steddazzu". Per chi non lo sapesse, "steddazzu" in dialetto meridionale indica Venere, che brilla per ultimo poco prima dell'alba. Una stella stanca, che non ha voglia e non riesce a risplendere. Una poesia dedicata a una stella che è viva per poco tempo come metafora del destino dell'uomo solo.
Cesare Pavese nacque il 9 settembre del 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese in provincia di Cuneo, da una famiglia con una certa agiatezza economica. La sua infanzia non fu facile. Il padre morì di cancro, una sorella e due fratelli scomparvero in tenera età, e la madre si ritrovò a cresce, in maniera dura e rigorosa, Cesare e suo fratello. A Santo Stefano Belbo trascorse la sua primissima infanzia, e quel luogo tornerà più volte nella sua poetica, come uno spazio di immaginazione e memoria.
Si trasferì poi a Torino, vicino a Piazza Solferino, dove continuò gli studi frequentando il liceo classico Alfieri. Lì era circondato da studenti e docenti che successivamente avrebbero reso grande il loro nome, come Leone Ginzburg. Anche gli anni del liceo, tuttavia, non furono rosei: rischiò di essere rimandato, si assentò alcuni mesi a causa di una malattia contratta, e fu partecipe del grande dolore che coinvolse la scuola quando un suo compagno, Elico Baraldi, si tolse la vita.
Nel 1935, sospettato di avere contatti e legami con Ginzburg, Pavese venne accusato di antifascismo e incarcerato, prima alle Nuove di Torino, poi venne confinato in Calabria. Da quell'anno iniziò a tenere un diario, che poi diventerà in seguito Il mestiere di vivere. Nel 1936 tornò a Torino deluso, perché le sue poesie passarono praticamente inosservate. Per guadagnare soldi continuò con la traduzione di opere di autori stranieri.
Iniziò a scrivere racconti e le prime opere in prosa (Il carcere, Paesi tuoi, La bella estate, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La spiaggia). La critica, nel frattempo, iniziò a osservarlo e a prenderlo in considerazione. Intanto, venne assunto alla Einaudi a tempo pieno. Quando nel 1943 Torino venne occupata, decise di sfollare verso un piccolo paese nel Monferrato. Lì, il 1° marzo venne a conoscenza della terribile morte tramite tortura di Leone Ginzburg.
Mise fine alla sua vita il 27 agosto, in una camera dell'albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino. Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, che si trovava sul tavolino aveva scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». All'interno del libro era inserito un foglietto con tre frasi scritte da lui: una citazione dal libro stesso, «L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia», una dal proprio diario, «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti», e «Ho cercato me stesso». Qualche giorno dopo si svolsero i funerali civili, senza celebrazioni religiose poiché suicida e ateo.
La vita di Cesare Pavese fu segnata anche da un rapporto un po' conflittuale e malsano con le donne e la sua affettività. Furono tre le donne di cui Pavese si innamorò: Tina Pizzardo, matematica e antifascista, con la quale ebbe un rapporto intenso e travagliato - dedicandole anche qualche poesia di Lavorare Stanca; Doris Dowling, attrice, che lasciò poi Pavese andando negli Stati Uniti - a lei dedicò La luna e i falò; Romilda Bollati, sorella dell'editore Giulio Bollati, all'epoca diciottenne, a cui indirizzò vari scritti sotto lo pseudonimo di "Pierina". A queste si aggiunge Bianca Garufi, a cui è dedicato Dialoghi con Leucò, psicanalista e grande amica di Cesare Pavese, con la quale lui collaborò anche per la scrittura di un libro, Fuoco Grande, e a cui faceva vedere i suoi scritti, come ci testimonia il suo epistolario.
L'uomo solo si leva che il mare e ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest'è l'ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L'uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c'è cosa più amara
che l'inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov'è un letto di neve. La lentezza dell'ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l'alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende.
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